En Roma el Pontificio Consejo «Justicia y Paz» celebra la Encíclica Pacem in Terris
De Omar Ebrahime (Participante en las celebraciones Omar Ebrahime, romano, graduado en Letras y Filosofía con una especialización en lenguas modernas, actualmente periodista para varias publicaciones, estudia los principales procesos rivolucionarios de la edad moderna y contemporánea. Traductor en Italia de la opera-prima del diplomático alemán Friedrich von Gentz, si está especializando en la profundización de las diversas – y frecuentemente acalladas – "consecuencias italianas" de la Revolución francesa de la cual el Risorgimento italiano, particularmente desde el perfil religioso y educativo, constituye históricamente la primera y más directa afiliación político-ideológica).
A ridosso della ricorrenza del cinquantesimo anniversario dalla pubblicazione dell'enciclica Pacem in Terris del Beato Giovanni XXIII dal 2 al 4 ottobre scorso si sono svolte a Roma - organizzate dal Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace - tre giornate celebrative che hanno richiamato un gran numero di studiosi, osservatori ed esperti da ogni parte del mondo. Raramente un documento del Magistero sociale dei Pontefici, pur se rivolto non solo ai credenti ma a tutti gli uomini di buoni volontà ovunque presenti, ha avuto infatti un eco e una risonanza mediatica internazionale come in questo caso. Promulgata proprio nei giorni in cui la crisi missilistica di Cuba (scoppiata nell'ottobre del 1962) rischiava di scatenare un nuovo conflitto atomico tra Stati Uniti e Unione Sovietica, l'enciclica passerà alla storia come uno dei più efficaci successi di mediazione, e riconciliazione, politico-diplomatica della Santa Sede: un'autentica chiave di volta geo-politica nella lunga e drammatica stagione della 'Guerra Fredda' (1945-1991). Dopo la proiezione di un filmato inedito di Papa Roncalli, ad inaugurare la manifestazione è stato il Presidente del dicastero vaticano organizzatore, il cardinale ghanese Peter K.A. Turkson, che ha evidenziato come il documento pontificio sia – oggi più che mai – caratterizzato da una perdurante attualità: basti pensare alle attuali minacce alla pace che dalla sponda meridionale del Mediterraneo, ma anche dal sempre più complicato scacchiere mediorientale, si diffondono rapidamente su scala globale arrivando a mettere in discussione delicatissimi equilibri internazionali che si pensavano faticosamente raggiunti una volta per tutte. Inoltre, temi quali la riforma strategica delle Nazioni Unite (si vedano le periodiche proposte di riforma presentate, finora invano, su quella struttura centrale che é il Consiglio di Sicurezza) e l'elaborazione di una visione antropologicamente finalmente condivisa della persona, costituiscono oggi – com'è di tutta evidenza – punti di urgente confronto ormai tanto nel dibattito pubblico in corso nei Paesi occidentali quanto in quelli economicamente emergenti, o in via di sviluppo. Non a caso Papa Francesco per l'occasione ha voluto concedere ai vari partecipanti convenuti a Roma, oltre trecento, presso la Sala Clementina del Palazzo Apostolico, un'udienza speciale con l'obiettivo di tornare a riflettere – non per una questione di mera forma, né certo per un omaggio di maniera al futuro 'San' Giovanni XXIII – su quello storico documento che a modo suo avrebbe avvicinato, come mai prima di allora, John Fitzgerald Kennedy (1917-1963) e Nikita Sergeevič Chruščёv (1894-1971).
Se è vero infatti che la pace è l'anelito profondo presente nel cuore di ogni persona, è pure vero che forse mai come oggi il termine è stato abusato e utilizzato a sproposito per gli scopi più impensabili. Tra chi detiene responsabilità di governo strategiche nelle aree più delicate del pianeta, poi, chi parla superficialmente di pace spesso non la cerca realmente, mentre altri ancora, altrettanto spesso, facendosi scudo del pretesto della pace, cercano solo la massimizzazione del proprio profitto personale. Per questo, se è un fatto storico innegabile che “i semi di pace gettati dal Beato Giovanni XXIII hanno portato frutti”, resta comunque il dato che “nonostante siano caduti muri e barriere, il mondo continua ad avere bisogno di pace e il richiamo della Pacem in Terris rimane fortemente attuale” come purtroppo dimostrano le decine di guerre, contese e conflitti violenti di vario tipo, locali e internazionali, che continuano a insanguinare le cronache odierne dall'Asia all'Africa fino al Sudamerica. Papa Francesco si è chiesto quindi quale sia il fondamento autentico della costruzione della pace: “La Pacem in Terris lo vuole ricordare a tutti: esso consiste nell’origine divina dell’uomo, della società e dell’autorità stessa, che impegna i singoli, le famiglie, i vari gruppi sociali e gli Stati a vivere rapporti di giustizia e solidarietà. E’ compito di tutti gli uomini costruire la pace, sull’esempio di Gesù Cristo, attraverso queste due strade: promuovere e praticare la giustizia, con verità e amore; contribuire, ognuno secondo le sue possibilità, allo sviluppo umano integrale, secondo la logica della solidarietà”. Al centro di ogni azione pubblica e sociale dovrebbe trovarsi allora il primato del valore della persona e la sua inalienabile dignità, “da promuovere, rispettare e tutelare sempre”. Oggi come ieri infatti, non è la Chiesa a dare indicazioni concrete su temi che, per la loro complessità, politica e civile, spettano piuttosto alle autorità temporali, tuttavia resta urgente e anzi imprescindibile il suo compito di educare, istruire e formare la persona umana nella sua integralità, sviluppando soprattutto l'attitudine alla promozione delle virtù, qualcosa che le odierne res novae, quali “l’emergenza educativa e l’influsso dei mezzi di comunicazione di massa sulle coscienze” rende sempre più impellente. In ogni caso, prima di intavolare grandi discorsi moralistici bisognerebbe ricordarsi - con un pragmatismo tipicamente gesuita, verrebbe da commentare, nel caso del Pontefice - che il primo luogo della pace è il singolo cuore umano (lo insegnava già Sant'Agostino), cuore che sarà destinato a rimanere inquieto e vagabondo (e quindi 'socialmente' agitato) finchè non avrà trovato la verità per cui è stato fatto fin dall'origine del mondo (non a caso il documento roncalliano caratterizza la pace come la somma di quattro variabili: verità, giustizia, amore e libertà, declinate esattamente in quest'ordine).
Il Papa ha quindi concluso il suo intervenendo descrivendo “la inumana crisi economica mondiale” come un “un sintomo grave della mancanza di rispetto per l’uomo e per la verità”, riferendosi a uno dei fondamenti cardine della Dottrina sociale – ripreso da ultimo anche nella Caritas in Veritate – secondo cui le scelte economiche non sono mai semplicemente delle opzioni tecniche interscambiabili ma implicano un giudizio di valore esigente sulla persona e l'ordine sociale, riflesso della Divina Creazione sulla terra. A seguire, ospitati nell'Aula Nuova del Sinodo della Città del Vaticano, i partecipanti si sono confrontati sui singoli capitoli dell'enciclica rilevandone – così il cardinale Turkson – lo straordinario apprezzamento, e il fascino, che il testo continua ad esercitare su credenti e non credenti a ogni latitudine del globo: il suo messaggio di pace universale e di solidarietà tra le Nazioni ancora oggi riesce ad arrivare, e a toccare, le intelligenze più diverse per la sua esigente radicalità e la capacità persuasiva. Tuttavia, se allora erano alte le aspettative sugli organismi internazionali di mediazione delle crisi che nascevano in quegli anni (su tutti le Nazioni Unite) oggi i numerosi focolai di guerra – che in alcune aree rischiano di provocare un effetto-domino su scala globale – rendono gli osservatori e gli analisti tendenzialmente meno ottimisti sul futuro del mondo. La pace, però, non è mai realizzata definitivamente una volta per tutte ed è anche il frutto compiuto di uno sforzo di cooperazione comunitario che va rinnovato instancabilmente, e con pazienza, giorno per giorno, nelle sedi deputate. Lo ha ricordato il professor Joseph Deiss (già presidente della Confederazione Elvetica (2004-2006), nonché successivamente dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite (2010)) che nel suo denso intervento (dal titolo “Riforma delle Nazioni Unite alla luce della Pacem in Terris”) si è soffermato sulla “singolare armonia” che si riscontra tra la Magna Charta istitutiva dell'ONU, entrata in vigore dopo la firma di San Francisco, nel 1945, e l'enciclica roncalliana di qualche anno dopo. Deiss ha sottolineato che le analogie significative che si riscontrano tra i due documenti non sono affatto accidentali dal momento che Chiesa e ONU sono entrambi organismi universali con una evidente, oltre che marcata, vocazione internazionale. Entrambi si muovono poi primariamente non per interessi politici ma sulla base di profonde ragioni valoriali, etiche, ideali e spirituali. Soprattutto, entrambi hanno a cuore il primato della tutela della pace e della dignità della persona umana come dimostra pure l'altro grande documento promosso dalle Nazioni Unite nel Secondo Dopoguerra (definito da Deiss “un'autentica pietra miliare” dell'attuale ordine mondiale): la celebre Dichiarazione Universale dei Diritti Umani firmata a Parigi il 10 dicembre 1948 e poi presa quale modello ispiratore per la gran parte delle Costituzioni civili promulgate nella seconda metà del Novecento, soprattutto in seguito al processo di de-colonizzazione. Né è un caso che tra i più importanti pensatori e gli estensori del testo finale della Dichiarazione vi fossero dei cristiani praticanti, ferventi ed impegnati apostolicamente ciascuno nel proprio campo professionale come il filosofo francese Jacques Maritain (1882-1973) e il diplomatico libanese Charles Habib Malik (1906-1987).
Certamente, oggi alcune procedure interne all'iter decisionale delle Nazioni Unite, come quelle relative all'adozione delle Risoluzioni strategiche per intervenire tempestivamente nelle aree di maggiore criticità e instabilità del pianeta paiono decisamente in ritardo sulle emergenze del momento, se non proprio da rivedere, ma ciò non toglie che i risultati raggiunti finora – a cominciare da una più pervasiva diffusione della cultura dei diritti umani a livello universale e della partecipazione democratica nella società civile – siano da considerare, così Deiss in conclusione, “decisamente incoraggianti”. D'altronde, non manca nemmeno - dall'altra parte - chi rimprovera all'enciclica pontificia una mancanza di realismo politico e un eccesso di utopia in certi punti non propriamente marginali, tuttavia non per questo la medesima perde di valore: la sottolineatura della centralità della persona umana (secondo accenti che talora paiono anticipare persino l'odierna 'questione antropologica') e il primato del diritto naturale a cui Giovanni XXIII spesso rimanda per la risoluzione delle questioni più impegnative restano anzi vere e proprie bussole d'orientamento anche oggi. Di particolare attualità in quest'ambito appare la questione della libertà religiosa che é stata affrontata in diversi interventi come una delle chiavi per la pace di oggi (parafrasando uno dei recenti messaggi di Benedetto XVI per la celebrazione della Giornata Mondiale della Pace: “Libertà religiosa, via per la pace”).
Notevolissimo per contenuti e profondità é stato ad esempio l'intervento della professoressa Fadia Kiwan, direttore dell'istituto di scienze politiche presso l'università Saint-Joseph di Beirut, in Libano: la studiosa ha ripercorso dettagliatamente il declino progressivo del concetto di tolleranza nell'ultimo secolo nella gran parte degli stati del Maghreb e del Medio Oriente legandolo al crollo rovinoso dell'impero ottomano durante la Prima Guerra Mondiale. E' allora che il tradizionale multiconfessionalismo del Califfato – certamente debole e persino discriminatorio verso le minoranze non appartenenti alla Umma ma almeno garantito istituzionalmente – subisce un colpo mortale per lasciare il posto a un aggressivo panarabismo islamista che tenta di fondere inseparabilmente identità etnica e fede coranica: nascono infatti a breve distanza l'una dall'altra una serie di Costituzioni, solo apparentemente 'moderne', in cui l'ispirazione islamica non compare più quale mera radice spirituale ma come vera e propria fonte del diritto e delle leggi. Poco più tardi, con il processo di de-colonizzazione, a questa esplosiva costruzione identitaria si aggiungerà un terzo elemento ideologico: il nazionalismo. Paesi che erano arrivati alla modernità con una storia di pluralismo etnico e religioso di rilievo subiscono inaspettatamente un'involuzione radicale finendo progressivamente ostaggio di frange estremiste e fondamentaliste: a livello popolare si diffonde così l'idea (storicamente falsa e priva di ogni fondamento) che il vero buon egiziano, ad esempio, o il buon tunisino, non possa che essere islamico. Gli altri, cristiani o meno, vengono quindi visti come cittadini di seconda classe o comunque di non pari dignità sociale, se non come veri e propri traditori dello Stato. Dopo l'11 settembre 2001, poi, la situazione non fa che aggravarsi: la mitizzazione da più parti della figura di Obama bin Laden (1957-2011), diffonde, soprattutto a livello giovanile, oltre a un revanscismo culturale istintivo verso l'altro, l'idea di un vero e proprio scontro di civiltà in atto che vede le sempre più sofferenti comunità autoctone cristiane (presenti in loco da secoli prima che arrivasse la predicazione di Maometto) come la longa manus dell'Occidente imperialista, colonizzatore e guerrafondaio e per questo alla stregua di corpi estranei da punire. Falso anche questo ovviamente, ma ormai, semplicemente, la rabbia delle piazze mediorientali (colpite nel frattempo pure da una grave crisi economica) e aizzata da una propaganda quotidiana mirata e a dir poco martellante, è troppo forte per essere limitata o contenuta in qualche modo: la situazione attuale è sotto gli occhi di tutti. Si tratta di una lettura articolata e non conformista, come si vede, coraggiosa e assolutamente poco nota dalle nostre parti: per la Kiwan il giudizio storico sull'impero ottomano nel suo complesso è tendenzialmente positivo mentre è l'evoluzione politico-sociale più recente degli Stati nazionali dell'area a destare preoccupazione. Sotto questo profilo, qualora non lo si fosse compreso, la valutazione dei regimi semi-dittatoriali di Mubarak in Egitto e Assad in Siria appare di gran lunga meno preoccupante rispetto a un eventuale Egitto a guida 'Fratelli Musulmani' (pure democraticamente eletti) o di una Siria addirittura a guida wahhabita. In ogni caso, le controverse rivolte degli ultimi tre anni (segnate anche, non va dimenticato, da una guerra civile tutta interna al mondo islamico per la conquista del potere tra sunniti e sciiti), oltre al caos sociale, per ora paiono avere portato le minoranze religiose dell'area (e, in primis, quella cristiana) verso posizioni di maggiore sudditanza, e a volte di emarginazione esplicita, rispetto a quelle che detenevano precedentemente.
Di analogo tenore la relazione del Procuratore patriarcale maronita presso la Santa Sede, monsignor François Eid, dell'Ordine Maronita Mariano, che ha letto un accorato messaggio del Consiglio dei patriarchi cattolici d'Oriente che lamentano con toni forti la vera e propria tragedia umanitaria, oltre che religiosa, di cui sono testimoni in questi mesi in Medio Oriente, a partire dall'Iraq. Numerosi gli episodi di discriminazione e violenze riportati: dagli attentati alle chiese e alle scuole alle persecuzioni delle famiglie, con il risultato che di fatto oggi i cristiani dell'area - che resta pur sempre la sola terra attraversata dal Signore nella sua vita pubblica - sono cittadini 'meno cittadini' degli altri, con meno diritti e meno difese. Tutta la regione appare in preda a una spirale incrociata e apparentemente incomprensibile di vendette, attentati e agguati (fomentati anche da gruppi stranieri provenienti dalla penisola arabica) che molto spesso vedono soccombere proprio le persone più innocenti. Il paradosso è che tutto questo accade in luoghi che per secoli erano stati laboratori di pluralismo e confronto: nota era, a tal proposito, l'ammirazione che il Beato Giovanni Paolo II nutriva per il Libano quale modello di Paese mediorientale fedele alle proprie radici eppure libero e moderno, un laboratorio sociale riuscito di convivenza e tolleranza sostanzialmente, oltre che formalmente, dalla struttura statuale democratica. Oggi, purtroppo, tutto questo appare sempre più come un sogno di un'epoca remota ormai dimenticata dalla storia. Nonostante le sofferenze, però, ha concluso Eid, i cristiani non vengono meno al patto di cittadinanza: le loro istituzioni educative (scuole ed università), ricercate ed ammirate anche dai non cristiani, continuano a svolgere pazientemente il loro lavoro di educazione ed alta formazione secondo una logica prettamente evangelica che vede il prossimo come un fratello in Cristo mentre la Chiesa, pur tra mille difficoltà, continua ad operare come soggetto attivo di mediazione e di riconciliazione sociale nelle crisi. A ulteriore riprova dell'emergenza in corso, il tema è stato poi ripreso anche in una tavola rotonda successiva in cui é intervenuto l'ex ministro pakistano Paul Bhatti, fratello del compianto Shahbaz (1968-2011), che ha descritto la situazione attuale nel suo Paese – appartenente peraltro a tutt'altra area geografica – come analoga, sotto molti aspetti, a quanto avviene quotidianamente in Medio Oriente, con l'aggravante della presenza di una legge apposita (la cosiddetta, e tristemente nota, “legge sulla blasfemia”, per cui Asia Bibi è ancora in carcere) che di fatto é uno strumento di controllo e repressione del dissenso, non solo religioso, ma anche politico e sociale nelle mani di frange estremiste e radicali. Il risultato – complice anche la permanente debolezza dell'esecutivo e delle forze di sicurezza – é che delle radici genuine dello Stato del Pakistan, che era nato nel 1947 staccandosi dall'India su basi squisitamente laiche, attualmente è rimasto poco o nulla e l'ideologia del fanatismo vince soprattutto grazie all'analfabetismo di massa che dilaga nel Paese (con punte del 70% in alcune aree) e all'indottrinamento mirato di alcune madrase (finanziate dall'estero) verso migliaia di ragazzi poveri che vivono in strada e sono per questo più esposti ai gruppi estremisti e ai nemici veri della pace: nella tormentata Repubblica dell'Asia meridionale, purtroppo, la strada per la riconciliazione, nonostante il sacrificio di Bhatti e Salman Taseer (1946-2011) pare ancora molto lunga.
L'altro grande panel di confronto, pure molto atteso, era quello socio-economico che avrebbe visto confrontarsi sull'attuale crisi finanziaria e il rinnovamento (auspicato) della gerarchia dei valori il professor Martin Schlag (direttore del Centro di Ricerca “Mercati, Cultura ed Etica” presso la Pontificia Università della Santa Croce di Roma) e il professor Stefano Zamagni (docente di economia politica presso l'Università di Bologna). Partendo da punti di studio e osservazione sensibilmente diversi, le analisi offerte dai due hanno comunque mostrato anche non pochi punti in comune riassumibili, fondamentalmente, in due: il primato di Dio (che presuppone una battaglia individuale, prima che istituzionale, per le opere della santità) e un deciso ritorno dell'etica nei sempre più confusi – oltre che spesso cinicamente predatori - processi del mercato occidentale. A prendere la parola per primo è stato Schlag che - dopo aver premesso che la natura della crisi non è meramente economica quanto piuttosto “culturale” e ha a che fare con scelte recenti della società occidentale nel suo insieme - ha specificato che la risposta da dare, realisticamente, non può essere generale ma va diversificata e adattata luogo per luogo. Tuttavia, è possibile ugualmente individuare tre linee-direttrici: anzitutto la bontà degli strumenti economici in quanto tali, se usati per il bene comune, e che vanno semmai purificati nell'opera di 'nuova evangelizzazione', non distrutti o demonizzati come se fossero il male assoluto. Quindi il primato della libertà dell'agire umano da tenere fermo contro vecchie e nuove ideologie che vorrebbero negarla in favore di entità astratte (lo Stato, il Debito etc.), infine l'ispirazione spirituale dettata dal Vangelo che – tanto per essere concreti – nei secoli passati ha permesso il nascere di istituti di credito e monti di pietà a partire addirittura dall'opera di Ordini mendicanti come i Francescani. Il tutto agendo sempre sullo sfondo di quel principio sociale fondamentale universalizzato, e diffuso per primo, solamente dal Cristianesimo: la carità. La 'nuova evangelizzazione' del sociale a cui i cristiani sono più che mai chiamati nei Paesi di antica Cristianità non riguarda quindi 'ricette nuove' da inventare ma – piuttosto – esperienze antiche da ri-scoprire e, se del caso, anche da ri-valorizzare. D'altronde, l'idea che i valori dell'illuminismo (o supposti tali) possano restare in piedi anche senza l'apporto del Cristianesimo é stata confutata più volte negli ultimi secoli: il corso della storia recente dimostra anzi semplicemente che “é una cosa che non funziona”. Schlag ha ricordato in proposito gli studi del filosofo politico francese contemporaneo Pierre Manent, il quale ha suggerito che la causa della demoralizzazione dell'Occidente (visibile anche, ad esempio, nel crollo demografico senza precedenti) ha le sue premesse in quella sorta di religione nichilista alternativa di massa che è il “credo dell'assenza di Dio”. Ad avviso dello studioso tedesco insomma, l'Europa non si riprenderà dalla crisi se prima – anzitutto con le sue classi dirigenti – non riscoprirà l'etica evangelica che all'alba del mondo civile ha diffuso ovunque, (e in primis tramite la fondazione di scuole, orfanotrofi ed ospedali), il principio della carità quale criterio di giudizio dell'agire umano. Come insegna la Dottrina sociale della Chiesa, d'altronde, la filantropia fine a se stessa alla lunga non produce mai dei grossi cambiamenti se non ha dietro una motivazione ultraterrena e 'non negoziabile'. E chi altro, se non i credenti, può possedere una motivazione del genere? Se è lecito volgarizzare, ma non troppo, torna qui in mente lo scambio di battute tra un celebre giornalista britannico e la Beata Madre Teresa di Calcutta. Dopo aver visitato personalmente la baraccopoli indiana, e visto l'opera eroica delle suore, il giornalista esclamò: “Ma come fa a fare questo Madre?Chi le dà la forza?Io non ci riuscirei neanche per un miliardo di dollari!”. Al che Madre Teresa rispose semplicemente: “Neanch'io, infatti. E' per Gesù che lo faccio”.
Replicando a Schlag, da parte sua il professor Zamagni si è detto convinto che il bilancio della globalizzazione economica - dopo decenni di prove 'sperimentali' senza limiti - vada invece ormai ridimensionato e in modo decisamente meno ottimistico giacchè focolai di guerra e instabilità sociale continuano ad alimentarsi in svariate parti del mondo: in generale si può affermare che non è stata socializzata la ricchezza pro capite dove più occorreva (anzi il divario tra ceti ricchi e poveri pare aumentare, in termini assoluti), né tantomeno, è stata realizzata quella 'categoria centrale' del vero progresso relativa al cosiddetto 'sviluppo umano integrale' (cioè sia di tipo morale che materiale) su cui la Chiesa fonda i lineamenti della società del futuro da costruire, cosicchè oggi le serie “diseguaglianze endemiche” dell'attuale sistema socio-economico rappresentano davvero una grave minaccia ai fragili equilibri della pace. La conclusione è presto tratta: se le dinamiche dei liberi processi su scala internazionale in quanto tali finora non sono state in grado di intervenire sulle numerose criticità del sistema allora bisogna arrivare a pensare finalmente delle istituzioni che “si dimostrino in grado di fermare l'aumento scandaloso delle ingiustizie sociali” e, così facendo, garantiscano parallelamente anche delle condizioni durature di pace. La riscoperta del valore della gratuità del dono come comportamento non solo virtuoso ma - anche economicamente - ragionevole e fruttoso (come invitava a fare, da ultimo, la Caritas in Veritate) per Zamagni non basta più: occorre intervenire a monte e con decisione su enti ed organismi di controllo politici sovranazionali, oltre che su quelli tipicamente finanziari (“è giunto il tempo di piangere di meno sugli orrori di cui siamo quotidianamente testimoni e di pensare più sui modi di ridisegnare quell'insieme di istituzioni economiche e finanziarie internazionali che sono le vere generatrici delle ingiustizie e delle tante forme di occasioni di guerra”), per frenare l'aumento delle rivendicazioni a catena e comprendere che “non tutto ciò che é tecnicamente possibile è eticamente lecito”. Un leitmotiv che è stato rilanciato opportunamente anche nella tavola rotonda sulla bioetica, dove prima dell'approfondimento sulla possibile liceità della ricerca scientifica sugli embrioni (relatrice la dottoressa Ornella Parolini del centro di ricerca E. Menni di Brescia), é stato ricordato con commozione un uomo indimenticabile che ha speso tutta la sua vita contro l'idea utilitarista applicata alla vita degli essere umani e di cui si è appena conclusa la fase diocesana del processo di beatificazione: il genetista francese, scopritore della sindrome di Down, Jerome Lejeune (1926-1994). Ha chiuso la manifestazione una tavola sulle buone pratiche, introdotta e moderata da Flaminia Giovanelli, sottosegretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, che ha illustrato con degli esempi concreti l'infaticabile opera di mediazione sociale, pacificazione e riconciliazione che la Chiesa tutta - laici, presbiteri e vescovi - svolge attivamente in Africa, in Sudamerica e nelle Filippine in contesi di crisi a favore dei più poveri e svantaggiati. Tra le altre personalità di rilievo intervenute nel corso dell'affollata tre-giorni, oltre ai già ricordati vertici del dicastero vaticano, il presidente S.E. il cardinale Peter Turkson e il segretario S.E. Monsignor Toso, il presidente del Pontificio Consiglio per le Comunicazioni Sociali, S. E. monsignor Claudio Maria Celli, il presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, S.E. il cardinale Jean-Louis Tauran e monsignor Michael Fitzgerald, già nunzio apostolico in Egitto.
Omar Ebrahime